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 Programma 2022-2023 - Registe                                               
 

CARAMEL

                                                  

Caramel

                               Nadine Labaki                                   

 

 

A Beirut, alcune donne lavorano in un istituto di bellezza: Layale (Nadine Labaki), innamorata di un uomo sposato, Nisrine (Yasmine Al Masri), che sta per sposarsi e non sa come dire al futuro sposo che ha già perduto la verginità, Rima (Joanna Moukarzel), che non riesce ad accettare di essere attratta dalle donne, Jamale (Gisèle Aouad), ossessionata dall'età e dal fisico, e infine Rose (Siham Haddad), che ha sacrificato i suoi anni migliori e la sua felicità per occuparsi della sorella Lili (Aziza Semaan). Nel salone, tra colpi di spazzola e cerette al caramello, si parla di sesso e maternità, con la libertà e l'intimità propria delle donne.

 

Nadine Labaki, insieme protagonista e regista del film, ci propone un affresco sulle donne, che non mancherà di andare dritto al cuore delle spettatrici, ma non solo. Un acquerello a tinte delicate, mai volgari, che tratta però temi di scottante attualità: la guerra, la convivenza tra cristiani e musulmani, il mischiarsi di abitudini ed etnie differenti. Stupiti, contempliamo come i problemi del mondo femminile siano sempre gli stessi, anche se il progresso sembra essersi fermato agli anni '80. Le donne fanno scudo, insieme, per affrontare le difficili realtà da cui sono circondate ed assalite. Con colori e fotografia degni dei pittori fiamminghi, Labaki poggia lo sguardo sulle dolci malinconie quotidiane, senza cadere nello scontato o nello stucchevole, e riuscendo a raccontare ben sei storie in una sola, senza che nessuna prenda il sopravvento. Narra attraverso gli occhi, i suoni, gli odori, in modo così pregnante da convincerci di poter toccare e assaporare, come se fossimo realmente immersi nell'atmosfera della ben bilanciata sceneggiatura. Una parola a parte va indubbiamente spesa per la colonna sonora, dosata con saggezza, sempre presente e non stancante, che non mancherà di far ricordare il suo autore, Khaled Mouzanar.

 

BREVIARIO DEL CINEMA LIBANESE

Come la sua stretta geografia, con la testa in montagna e i piedi nel mare, anche il cinema libanese sembra concentrato in pochi metri quadri, in una manciata di film, di anni e di cambiamenti.

«History of Lebanese Cinema» della giornalista Diana Moukalled è un documentario piccolo ma prezioso, un sommario di un viaggio che puntella alcuni snodi e percorsi di un paese. La stessa regista, volto noto del giornalismo televisivo e corrispondente di guerra, definisce il cinema stesso uno specchio della storia.

Nel 1929 e nel 1936 ci sono i primi timidi tentativi della cinematografia libanese, seguiti da quelli del regista Ali El Aris nel 1943 e 1945, ma è solo nel 1956 con «Ila Ayn» di George Nasr che il cinema libanese viene ufficialmente rappresentato, a Cannes, con la storia di un immigrato libanese negli Stati Uniti. Seguono gli anni ruggenti della Parigi del Medio Oriente, la diffusione di produzioni e proiezioni e il ruolo dello Studio Baalbek, una piccola Cinecittà che cercava di farsi largo all’ombra delle più popolari produzioni egiziane.

Dalla metà degli anni Sessanta vengono prodotti molti film militanti, dando vita a una storia nella storia: quella del rapporto tra Studio Baalbek e l’OLP. La guerra, il fato, il destino. La svolta nel cinema libanese arriva con Maroun Baghdadi, dove il conflitto nei suoi film (dal 1975 al 1991) non è solo politico ma vive soprattutto attorno all’individuo e i film di guerra diventano gli unici libri di storia su cui tutti o quasi sono d’accordo. «Houroub Saghira» (Les petites guerres) del 1982 è la sintesi madre di un ritornello libanese: il perdono, la memoria.

Lo stesso refrain ritorna anni dopo con la generazione dei registi degli anni Novanta, formatasi all’estero: «The Insult» (2017) di Ziad Doueiri e ancor più il suo «West Beirut» (1998), in cui mostra quella generazione attraverso la storia di tre adolescenti che si iniziano alla vita durante la guerra civile. Dove inizia e dove finisce l’identità del cinema libanese? Rappresentare la realtà locale viene meno davanti ai fondi e ai gusti dei festival occidentali? In questo eterno e irrisolvibile attrito, nell’esotismo di ritorno che non trova pace, si inserisce Nadine Labaki con il fortunato «Caramel» (2007).

Ma se non si affrontano i tabù è possibile per una società e per il suo cinema crescere? L’identità del cinema libanese continua ad essere scevra di particolari vagues, precaria e instabile, come la storia in cui si riflette ma che non smette di regalare perle.

Natasha Ceci (Il Manifesto)