CARAMEL
Caramel
Nadine
Labaki
A Beirut, alcune donne lavorano in un
istituto di bellezza: Layale (Nadine Labaki), innamorata di un uomo sposato,
Nisrine (Yasmine Al Masri), che sta per sposarsi e non sa come dire al futuro
sposo che ha già perduto la verginità, Rima (Joanna Moukarzel), che non riesce
ad accettare di essere attratta dalle donne, Jamale (Gisèle Aouad),
ossessionata dall'età e dal fisico, e infine Rose (Siham Haddad), che ha
sacrificato i suoi anni migliori e la sua felicità per occuparsi della sorella
Lili (Aziza Semaan). Nel salone, tra colpi di spazzola e cerette al caramello,
si parla di sesso e maternità, con la libertà e l'intimità propria delle donne.
Nadine Labaki, insieme protagonista e regista
del film, ci propone un affresco sulle donne, che non mancherà di andare dritto
al cuore delle spettatrici, ma non solo. Un acquerello a tinte delicate, mai
volgari, che tratta però temi di scottante attualità: la guerra, la convivenza
tra cristiani e musulmani, il mischiarsi di abitudini ed etnie differenti.
Stupiti, contempliamo come i problemi del mondo femminile siano sempre gli
stessi, anche se il progresso sembra essersi fermato agli anni '80. Le donne
fanno scudo, insieme, per affrontare le difficili realtà da cui sono circondate
ed assalite. Con colori e fotografia degni dei pittori fiamminghi, Labaki
poggia lo sguardo sulle dolci malinconie quotidiane, senza cadere nello
scontato o nello stucchevole, e riuscendo a raccontare ben sei storie in una
sola, senza che nessuna prenda il sopravvento. Narra attraverso gli occhi, i
suoni, gli odori, in modo così pregnante da convincerci di poter toccare e
assaporare, come se fossimo realmente immersi nell'atmosfera della ben
bilanciata sceneggiatura. Una parola a parte va indubbiamente spesa per la
colonna sonora, dosata con saggezza, sempre presente e non stancante, che non
mancherà di far ricordare il suo autore, Khaled Mouzanar.
BREVIARIO DEL CINEMA LIBANESE
Come la sua stretta geografia, con la testa in
montagna e i piedi nel mare, anche il cinema libanese sembra concentrato in
pochi metri quadri, in una manciata di film, di anni e di cambiamenti.
«History of Lebanese Cinema» della giornalista
Diana Moukalled è un documentario piccolo ma prezioso, un sommario di un
viaggio che puntella alcuni snodi e percorsi di un paese. La stessa regista,
volto noto del giornalismo televisivo e corrispondente di guerra, definisce il
cinema stesso uno specchio della storia.
Nel 1929 e nel 1936 ci sono i primi timidi
tentativi della cinematografia libanese, seguiti da quelli del regista Ali El
Aris nel 1943 e 1945, ma è solo nel 1956 con «Ila Ayn» di George Nasr che il
cinema libanese viene ufficialmente rappresentato, a Cannes, con la storia di
un immigrato libanese negli Stati Uniti. Seguono gli anni ruggenti della Parigi
del Medio Oriente, la diffusione di produzioni e proiezioni e il ruolo dello
Studio Baalbek, una piccola Cinecittà che cercava di farsi largo all’ombra
delle più popolari produzioni egiziane.
Dalla metà degli anni Sessanta vengono prodotti
molti film militanti, dando vita a una storia nella storia: quella del rapporto
tra Studio Baalbek e l’OLP. La guerra, il fato, il destino. La svolta nel
cinema libanese arriva con Maroun Baghdadi, dove il conflitto nei suoi film
(dal 1975 al 1991) non è solo politico ma vive soprattutto attorno
all’individuo e i film di guerra diventano gli unici libri di storia su cui
tutti o quasi sono d’accordo. «Houroub Saghira» (Les petites guerres) del 1982
è la sintesi madre di un ritornello libanese: il perdono, la memoria.
Lo stesso refrain ritorna anni dopo con la
generazione dei registi degli anni Novanta, formatasi all’estero: «The Insult»
(2017) di Ziad Doueiri e ancor più il suo «West Beirut» (1998), in cui mostra
quella generazione attraverso la storia di tre adolescenti che si iniziano alla
vita durante la guerra civile. Dove inizia e dove finisce l’identità del cinema
libanese? Rappresentare la realtà locale viene meno davanti ai fondi e ai gusti
dei festival occidentali? In questo eterno e irrisolvibile attrito,
nell’esotismo di ritorno che non trova pace, si inserisce Nadine Labaki con il
fortunato «Caramel» (2007).
Ma se non si affrontano i tabù è possibile per una
società e per il suo cinema crescere? L’identità del cinema libanese continua
ad essere scevra di particolari vagues, precaria e instabile, come la
storia in cui si riflette ma che non smette di regalare perle.
Natasha Ceci (Il Manifesto)
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